venerdì 18 novembre 2016

Studi e fonti della Musicologia sarda.

Filippo Figari, decorazione murale
a cura di Davide Chia volontario della Pro loco di Santadi

Se rivolgiamo lo sguardo indietro nel tempo, ci accorgiamo che i lavori critici e storiografici sulla musica in Sardegna risultano pressoché inesistenti, “Silenzio assoluto, per alcuni millenni” (Dore). 

Solo in età moderna, a partire dal 1773, si hanno i primi riferimenti:

Giuseppe Fuos, cappellano al servizio del Re di Sardegna, fa dei fugaci accenni a qualche strumento musicale sardo, all’interno di alcune lettere in cui descrive gli aspetti più singolari delle tradizioni sarde, gli aspetti che più l’hanno affascinato. 

Il primo accenno alle Launeddas lo troviamo nel saggio di Giuseppe Madau, “Armonie dei Sardi” (1787).

La base di partenza per una ricerca organologica sarda può essere l’opera “Voyage en Sardaigne” di A. Della Marmora (1839).

Alcune notizie ci sono state lasciate anche dall’abate Angius nel “Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna” (1834-1856).

 “La musica è pel sardo religione, patria, focolare domestico”, così scriveva nel 1940 Giulio Fara, grazie al quale si devono sia le pagine più interessanti sull’organologia musicale sarda, sia l’avvio degli studi della “musicologia sarda”. In realtà, già nel 1841, Nicolò Oneto scrisse ”Memoria sopra le cose musicali della Sardegna” 

ma l’opera risultò essere molto confusa, limitata dalla descrizione di appena quattro strumenti. 

Tra gli studi più recenti dobbiamo ricordare “The Launeddas. A Sardinian folk Music Instrument” di A.F. Weis Bentzon del 1969 e “Musica sarda” di D. Carpitella, P. Sassu, L. Sole, del 1973. 

Termini utili ai fini della comprensione della ricerca. 

→ Il termine TRADIZIONE deriva dal latino traditiònem, a sua volta derivato da tràdere, verbo latino che significa  “consegnare, trasmettere” e che può assumere diverse accezioni in italiano, fra le quali quella di “consuetudine”, intesa come “trasmissione nel tempo” delle usanze, degli usi, dei costumi, dei rituali, della religiosità, della memoria degli eventi storici e delle leggende all'interno del gruppo umano di appartenenza, da parte delle generazioni che le hanno prima apprese, conservate, poi modificate ed infine trasmesse alle generazioni successive. Si tratta, in antropologia, di un vero e proprio fenomeno di “inculturazione”, di riproduzione delle “tradizioni popolari”, del “folklore”. 

→ Definire il concetto di MUSICA è un lavoro arduo e molto complesso. 

Tutti noi abbiamo esperienza di essa, tutti “produciamo” musica, per esempio quando banalmente cantiamo o “strimpelliamo” una canzone ascoltata alla radio e che ci piace, quando componiamo brani o “motivetti”, seriamente o con ironia: attraverso questi banali gesti riusciamo a soddisfare il bisogno innato di “comunicare” anche attraverso questa peculiare forma. 

Quindi, una prima definizione di “musica” può essere quella di “peculiare forma di comunicazione umana”. 

Tutti i linguaggi, da quello umano a quello utilizzato dagli animali, o a quello della tecnologia, hanno come obiettivo la comunicazione di un messaggio, di un informazione: anche la musica quindi veicola un messaggio, a volte chiaro e a volte velato, ma sempre accompagnato da melodie che ne esaltano il significato. 

La musica, proprio per il suo essere veicolo di significati è spesso usata e definita come linguaggio utile in particolar modo nell’ambito del sociale. 

Le origini della musica sono oscure, come quelle del linguaggio, celate nell’antichità della storia dell’umanità. A prescindere dalle sue origini, possiamo sicuramente affermare che tutti i popoli e le civiltà del mondo  possiedono una propria “storia della musica”, anche se con evidenti differenze. 

Infatti, mentre gran parte delle culture non occidentali non hanno avuto nelle loro lingue un termine la cui estensione semantica corrispondesse, in tutto o in parte al concetto di musica sviluppato dalle civiltà europee, ciò non ha impedito che producessero e utilizzassero, nel corso del tempo, forme e strutture sonore estremamente elaborate. 

Presso questi popoli, la musica non è concepita come “cosa” in sé ma viene identificata nelle sue manifestazioni concrete (la voce che canta, gli strumenti che producono suoni diversi) e in rapporto alle sue funzioni nella vita della comunità (riti, celebrazioni, attività lavorative, ecc.). 

Invece nelle culture occidentali il termine “musica” è stato coniato sulla base del vocabolo greco “mousikè”, il quale deriva dalla fusione del termine “musa” (etimo di origini oscure e dibattute: potrebbe essere nato da una radice che indica “montagna” in riferimento all’Olimpo, oppure dal verbo “ideare” ) con quello di “techné” (arte) e sottolinea in questo modo la complessa sinergia tra le tre componenti dell’arte delle muse: la poesia, la danza e la musica. 

Anche nell’antichità occidentale, come in quelle non occidentali (come si è detto prima), la musica non era concepita come arte a sé, ma come la componente sonora di un insieme di attività intellettive e fisiche, utilizzate durante le manifestazioni religiose e artistiche delle società. 

Allora, cercando di essere via via più precisi nella definizione di “musica”, tuttavia consapevoli che non si potrà arrivare ad un risultato univoco ed esauriente, potremmo dire che la musica è un’arte, un linguaggio utilizzato dai gruppi umani che, attraverso la combinazione dei suoni, se ne servono nel tentativo di veicolare messaggi e informazioni, che sono diretta espressione della propria cultura.
 
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