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Carnevale in Sardegna |
Nei giorni di carnevale le strade, le piazze diventano teatro di forti allegorie e simbolismi, creati dalle maschere, dai colori, dai giochi, dai carri e dalla comunità e dal pubblico stesso, che interagisce con lo spettacolo, viene trascinato, coinvolto da tutto ciò che è il Carnevale.
E' una festa in cui la recita, la partecipazione incondizionata, si trasforma in vita autentica, quasi una seconda vita, nel regno utopico della libertà, dell'uguaglianza e soprattutto si crea una comunicazione tra le diverse stratificazioni sociali.
Dalle testimonianze raccolte veniamo a sapere che, ad Ossi, nei decenni passati la festa era diversa rispetto ad oggi; i giorni canonici sono rimasti sempre gli stessi, cioè il martedì grasso, martisi de karrasekare, la domenica di Carnevale, dominica e karrasekare, il giovedì grasso, lardajolu, e la Pentolaccia.
Anticamente si iniziava a fine gennaio "(...) Primu non macheraimisi tott'umpare s'iniziaiada a fine ennanzu (...)" . Si andava a ballare al Monte Granatico, ma chiunque avesse una stanza, la liberava dagli arredi e la metteva a disposizione: venivano invitati dei suonatori di fisarmonica, su sonatore de fisarmonica (la paga consisteva nell'invito a cena) e tutti gli amici e il vicinato.
Molto spesso i balli continuavano anche per le strade e le vie dei vari quartieri.
Le ragazze dovevano essere obbligatoriamente accompagnate da un fratello, cugino o dal fidanzato.
I balli che si facevano erano svariati; il più delle volte, oltre a vari tipi di balli sardo, si improvvisavano polka, mazurca e valzer.
La gente non indossava maschere elaborate, ma riutilizzavano vecchi abiti, maskere becce.
A volte il vestito a maschera era il caratteristico abito sardo, magari quello del nonno.
La questua alimentare, organizzata soprattutto per il giovedì grasso, lardajolu, raccoglieva gli ingredienti per preparare le vivande per le tavolate offerte a tutti: "(...) bessimisi a "dimandare ene" (...)" ovvero a raccogliere degli alimenti, solitamente fave, lardo, cavoli e vino, sempre abbondante, e tutto il necessario per organizzare una grande favata.
Si reperiva anche il necessario per preparare frittelle, sas frisciolas, ossia olio, farina, zucchero e miele.
Il dono del cibo rientra in un rapporto di reciprocità all'interno della comunità stessa, la quale mette a disposizione gli alimenti che serviranno per la grande festa, a cui tutti partecipano: l'eccesso alimentare, soprattutto del Carnevale, è una rottura dei normali riti della vita quotidiana, in quanto la dieta generalmente seguita, si basava principalmente di alimenti poveri; infatti, l'abbondanza di cibo, carni, grassi, dolci e vino, è tipica dei giorni di festa.
Anche ad Ossi è stata documentata l'usanza di costruire carri allegorici: questa è però un'introduzione recente.
Più tradizionale è, invece, il fantoccio di Giolzi, col quale le maschere andavano in giro per il paese, fermandosi in ogni abitazione, soprattutto in quelle in cui vi erano ragazze nubili.
Si intonava un ritornello scherzoso: "(...) Giosi meu bullittadu Giosi meu bullittadu sa bulletta mia a ... (...)" seguiva il nome della ragazza; un'altra variante documentata intonava: "(...) Giosi meu, Giosi meu, chiera bullittare su Giosi de... (seguiva il nome della ragazza) cun sa bulletta mea!" (...)".
La fine, a cui è destinato Giolzi, essere bruciato sulla pubblica piazza davanti alla comunità, ha delle valenze simboliche, una per tutte è rappresentata dal ciclo di morte e rinascita.
Il Carnevale terminava definitivamente con la Pentolaccia, durante la quale si aveva un ulteriore surplus alimentare: frutta secca, dolci, salsicce, fave, grano e, in rari casi, anche denaro.
Questo era anche l'ultimo momento della festa in cui si poteva partecipare ai balli; infatti, da lì a poco si apriva il periodo quaresimale.