venerdì 29 aprile 2016

Il Carnevale di Ossi

Carnevale in Sardegna
Carnevale in Sardegna
Il Carnevale è uno dei momenti di festa profana più importanti di tutto il ciclo annuale. 

Nei giorni di carnevale le strade, le piazze diventano teatro di forti allegorie e simbolismi, creati dalle maschere, dai colori, dai giochi, dai carri e dalla comunità e dal pubblico stesso, che interagisce con lo spettacolo, viene trascinato, coinvolto da tutto ciò che è il Carnevale. 

E' una festa in cui la recita, la partecipazione incondizionata, si trasforma in vita autentica, quasi una seconda vita, nel regno utopico della libertà, dell'uguaglianza e soprattutto si crea una comunicazione tra le diverse stratificazioni sociali. 

Dalle testimonianze raccolte veniamo a sapere che, ad Ossi, nei decenni passati la festa era diversa rispetto ad oggi; i giorni canonici sono rimasti sempre gli stessi, cioè il martedì grasso, martisi de karrasekare, la domenica di Carnevale, dominica e karrasekare, il giovedì grasso, lardajolu, e la Pentolaccia. 

Anticamente si iniziava a fine gennaio "(...) Primu non macheraimisi tott'umpare s'iniziaiada a fine ennanzu (...)" . Si andava a ballare al Monte Granatico, ma chiunque avesse una stanza, la liberava dagli arredi e la metteva a disposizione: venivano invitati dei suonatori di fisarmonica, su sonatore de fisarmonica (la paga consisteva nell'invito a cena) e tutti gli amici e il vicinato. 

Molto spesso i balli continuavano anche per le strade e le vie dei vari quartieri. 

Le ragazze dovevano essere obbligatoriamente accompagnate da un fratello, cugino o dal fidanzato. 

I balli che si facevano erano svariati; il più delle volte, oltre a vari tipi di balli sardo, si improvvisavano polka, mazurca e valzer. 

La gente non indossava maschere elaborate, ma riutilizzavano vecchi abiti, maskere becce. 

A volte il vestito a maschera era il caratteristico abito sardo, magari quello del nonno.

La questua alimentare, organizzata soprattutto per il giovedì grasso, lardajolu, raccoglieva gli ingredienti per preparare le vivande per le tavolate offerte a tutti: "(...) bessimisi a "dimandare ene" (...)" ovvero a raccogliere degli alimenti, solitamente fave, lardo, cavoli e vino, sempre abbondante, e tutto il necessario per organizzare una grande favata. 

Si reperiva anche il necessario per preparare frittelle, sas frisciolas, ossia olio, farina, zucchero e miele. 

Il dono del cibo rientra in un rapporto di reciprocità all'interno della comunità stessa, la quale mette a disposizione gli alimenti che serviranno per la grande festa, a cui tutti partecipano: l'eccesso alimentare, soprattutto del Carnevale, è una rottura dei normali riti della vita quotidiana, in quanto la dieta generalmente seguita, si basava principalmente di alimenti poveri; infatti, l'abbondanza di cibo, carni, grassi, dolci e vino, è tipica dei giorni di festa.

Anche ad Ossi è stata documentata l'usanza di costruire carri allegorici: questa è però un'introduzione recente. 

Più tradizionale è, invece, il fantoccio di Giolzi, col quale le maschere andavano in giro per il paese, fermandosi in ogni abitazione, soprattutto in quelle in cui vi erano ragazze nubili. 

Si intonava un ritornello scherzoso: "(...) Giosi meu bullittadu Giosi meu bullittadu sa bulletta mia a ... (...)" seguiva il nome della ragazza; un'altra variante documentata intonava: "(...) Giosi meu, Giosi meu, chiera bullittare su Giosi de... (seguiva il nome della ragazza) cun sa bulletta mea!" (...)". 

La fine, a cui è destinato Giolzi, essere bruciato sulla pubblica piazza davanti alla comunità, ha delle valenze simboliche, una per tutte è rappresentata dal ciclo di morte e rinascita.

Il Carnevale terminava definitivamente con la Pentolaccia, durante la quale si aveva un ulteriore surplus alimentare: frutta secca, dolci, salsicce, fave, grano e, in rari casi, anche denaro. 

Questo era anche l'ultimo momento della festa in cui si poteva partecipare ai balli; infatti, da lì a poco si apriva il periodo quaresimale.

Feste e Riti a Ossi

Feste e Riti a Ossi
Feste e Riti a Ossi
I riti e le feste caratterizzano la storia di Ossi, come di tutta la Sardegna

La festa era il momento e l'occasione per consolidare e rafforzare rapporti di amicizia e di norme che regolavano la vita e la relazione con le comunità vicine, quando si trattava di feste campestri; mentre le feste paesane erano arricchite da eventi affascinanti ricchi di cultura, tradizioni, usanze e costumi

Il  momento culminante di cultura era la gara dei poeti improvvisatori i quali avevano un ruolo da protagonisti nella società; esse erano inoltre le occasioni per la produzione del pane e dei dolci destinato per le feste; si utilizzava il costume tradizionale per distinguere e classificare con chiarezza gli uomini e le donne nei rispettivi status, ruoli sociali e civili e le particolari identità. 

La celebrazione religiosa, in forma solenne con la suggestiva processione, era il momento in cui ognuno testimoniava la propria fede e si chiedevano grazie per augurare il fiorire di stagioni feconde, di ricchi raccolti. 

Tutti questi elementi uniti ad altri particolari della vita quotidiana della nostra comunità offrono un quadro in cui appaiono evidenti il rispetto dei valori, la forza nel conservare la propria identità, la propria cultura, la propria fede religiosa, la famiglia e le norme che regolano la vita di relazione.

La Festa di Sant'Antonio Abate

Su  Fogarone
Su  Fogarone
Così come avviene in tanti altri centri della Sardegna, anche ad Ossi i festeggiamenti in onore del Santo si svolgono durante la notte che precede la ricorrenza e chiaramente per l’intera giornata del diciassette di gennaio

Nei decenni scorsi, uomini e donne che partecipavano alla festa, si ricavano a cavallo presso la chiesa campestre di S. Antonio abate, scenario delle funzioni liturgiche me della ritualità connessa ai festeggiamenti del Santo. 

Anche in tempi non tanto lontani, quando le autovetture non esistevano o erano ancora privilegi di pochi, si è riscontrato il perdurare della tradizione dell’uso dell’ animale come mezzo di trasporto, come se la presenza del cavallo, fosse in qualche modo congrua alla solennità della festa.

Il simulacro del Santo veniva portato in processione dalla chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo, dove tuttora si conserva, fino alla chiesetta campestre, ubicata nel paesaggio collinare delle campagne che collegano Ossi a Florinas. 

Il corteo processionale era costituito, come abbiamo detto in precedenza, da fedeli a cavallo, ma soprattutto da uomini da uomini e donne che a piedi accompagnavano la statua del Santo.

Attualmente la popolazione si avvale di più moderni mezzi di trasporto per raggiungere la chiesa, e il simulacro stesso non è più portato a spalla, bensì a bordo di un camioncino che, sporadicamente, è accompagnato, nel viaggio, da qualcuno che compie il tragitto a piedi per sciogliere un voto.

La legna ancora oggi viene raccolta già dai primi di gennaio, in modo spontaneo. Si compone di fascine e tronchi di rami di ulivo e vite: le colture che sono presenti , in prevalenza, nelle campagne intorno al paese.

Nell’indagine è emerso che nel passato la raccolta dei materiali da bruciare avveniva per lo più per iniziative private, nelle aree demaniali intorno alla chiesa, oppure nelle campagne, che venivano in questo modo liberate dalla legna accatastata dopo la fase di potatura, come talvolta accade in tutti i paesi della regione.

Attualmente sono due i falò che vengono allestiti la sera del sedici, vigilia della ricorrenza del Santo. 

Nel caso di Ossi si tratta di un falò campestre.

Il pane benedetto viene distribuito, al termine della cerimonia, ai fedeli presenti, che lo consumano o lo conservano nelle loro abitazioni come segno benaugurate.

Il parroco procede poi con la benedizione del fuoco e dei presenti.

Il parroco di Florinas, cui compete la giurisdizione della chiesa, sebbene si trovi nel territorio comunale di Ossi, benedice la catasta realizzata dal paese che egli rappresenta. L’accensione del fuoco è seguita da quella di un cero, che farà bruciare le candele tenute in mano dai fedeli florinesi. Pertanto, le candele non saranno utilizzate solo per la funzione di illuminare lo spazio esterno, ma come simboli di luce-vita.

Mentre arde il falò, i fedeli florinesi compiono, con le candele in mano, tre giri intorno alla chiesa, per poi raggiungere l’ingresso dell’edificio per assistere alla messa officiata dal parroco del loro paese.

E’ da sottolineare la valenza del numero dei giri compiuti intorno all’edificio, corrispondente a tre, il numero che simboleggia nella Cristianità la Trinità.

All’uso comunitario del fuoco all’esterno, più legato agli uomini che realizzano la catasta e hanno cura che non provochi incidenti, ne corrisponde parallelamente uno di dimensione privata, legato quindi al focolare domestico, per le donne cui spetta la preparazione del pane. 

Attualmente il falò viene allestito nella piazzetta antistante al sagrato della chiesa, mentre in origine il fuoco bruciava nella nuda terra, debitamente preparata, della campagna. Non risulta che l’accensione del falò fosse demandata a qualche persona con particolari abilità, così come ancora oggi capita.

La catasta veniva realizzata con particolare cura, affinché la legna potesse bruciare in maniera uniforme. 

Lo stesso si verifica oggi.

Il termine che, ad Ossi, designa l’innesco del fuoco è s’allughinzu.

Secondo una credenza diffusa, dalla rapidità in cui divamperanno le fiamme del falò, si possono trarre auspici sui risultati dell’annata agraria. 

In molti riti agrari ai roghi, alle braci e alla cenere viene attribuito il potere legato alla crescita delle messi e il benessere di uomini e di animali da eventuali sciagure. 

E’ attestata ancora oggi l’usanza in alcuni paesi della Sardegna,(ma anche in Sicilia, dove il culto per S. Antonio abate è particolarmente diffuso), di far camminare il bestiame sulle braci o di farlo ruotare intorno al fuoco in funzione apotropaica.

Allo spegnimento del fuoco, era tradizione in diversi paesi, raccogliere i tizzoni residui per un loro utilizzo in cucina, poiché si ritiene che abbiano il potere di neutralizzare le disgrazie.

I racconti delle persone più anziane del paese, che costituiscono insostituibile memoria storica della comunità, descrivono un falò intorno al quale si ballava, si abbondava in libagioni, e le braci che rimanevano venivano utilizzate per cucinare le carni che venivano consumate comunitariamente.

L’uso di saltare il fuoco è venuto meno già da qualche anno, mentre ancora in anni poco lontani, si è registrata la tradizione di girare più volte intorno al fuoco, tenendosi per mano. 

In questo gesto si legge il valore della festa quale occasione per rafforzare i legami sociali.

Eì emerso che fino a un recente passato, si allestissero all’interno del paese, in particolar modo nei quartieri, in particolar modo nei quartieri storici come Litterai, dei fuochi e che, per la festa di S. Antonio, ci fosse la tradizione di contrarre legami di comparato tra gruppi di giovani, tramite il fogarone

Si trattava di fuochi per cui non era prevista nessuna partecipazione da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche.

Frasche, paglia, vite, rami secchi e materiale di risulta servivano a creare , la sera del sedici, delle grandi cataste da bruciare, il più alte ed imponenti possibili.

L’uomo attorcigliava un lembo della gonna della donna con cui avrebbe dovuto saltare il fuoco , la donna un lembo della camicia dell’uomo.

Prima di saltare il fuoco, il ragazzo e la ragazza, che suggellavano il nuovo rapporto, recitavano:

“A comare, a compare
A comare del fogarone
A ch’entannos in allegria a durante custa fumaria nostra”.

Tutti coloro che avevano saltato insieme il rogo si consideravano da quel giorno “compare” e “comare” e, a distanza di tanti anni, è ancora rimasta l’abitudine, tra queste persone, di identificarsi in questo modo.

Il fuoco, carico di numerose valenze, assume quindi in un più ampio e sfaccettato contesto, valore di forza rigeneratrice, poiché lo spegnimento del fuoco rinvia al caos, alla morte e la sua riaccensione segnala il ricomporsi del cosmos e la ripresa della vita a livello umano e della natura.

Ogni anno si rinnova così, ciclicamente, l’ordine universale delle cose.

La giornata del diciassette prevede la celebrazione al mattino delle funzioni liturgiche, officiate una dal sacerdote di Florinas e l’altra dal sacerdote di Ossi, al termine della quale vengono offerti dolci, che la tradizione vuole consumati ritualmente in comune.

In tempi passati si portava con se quanto si possedeva e si poteva reperire nelle singole abitazioni; non mancavano mai le carni di maiale , l’animale che è in associazione con S. Antonio e che, in qualche modo, rappresenta simbolicamente il Santo stesso. 
Venivano impiegate abbondanti quantità di vino, inu a disgrascia.

I legami comunitari vengono rinsaldati, attraverso la condivisione dei pasti e delle bevande, nonostante questa tradizione si stia dissolvendo, soppiantata dalla vendita nelle bancarelle di prodotti alimentari, torrone, dolci, salsicce di maiale, formaggi.

In tempi passati, si allestivano delle grandi tavolate in cui si riuniva l’intera comunità, mentre oggi è più frequente che piccoli gruppi familiari si riuniscano nelle abitazioni private delle campagne intorno alla chiesa.

Resta comunque immutato il coinvolgimento della popolazione, in particolare devozione, come avviene in molti paesi dell’isola.



La Chiesa di Santa Vittoria de Plano

La Chiesa di Santa Vittoria
La Chiesa di Santa Vittoria de Plano
La chiesa risulta essere annessa con questo titolo alla Chiesa Cattedrale Turritana con atto del 31 agosto 1571 (C.D.S., II, XXXI). 

L’edificio, nel quale si identifica un primo nucleo medievale, è stato oggetto di diversi interventi di rifacimento dalla sua fondazione, dei quali rimane memoria in varie iscrizioni incise in un pilastro e nella chiave dell’arco della volta del presbiterio (che riporta la data 1608). 

Presenta pianta longitudinale ad unica navata, con due cappelle laterali aperte tra i contrafforti, e abside quadrangolare, più bassa e stretta, con arco a sesto acuto e sorretto da pilastri polistili. ù

L’abside, di estrazione gotico -catalana nell’accezione locale (XV – inizi XVI sec.), presenta volta costola nata a crociera e gemma pendula con l’effige della Santa; le nervature poggiano posteriormente su capitelli antropomorfi e anteriormente su peduccio con sferule terminali che si lega al capitello dell’arco d’ingresso. 

La navata è partita in quattro campate da archi diaframma sul quale si imposta il soffitto, il presbiterio è voltato a botte. Il prospetto, a facciata piana, è ripartito in due ordini mediante cornice orizzontale.

La Chiesa di Santa Croce

La Chiesa di Santa Croce
La Chiesa di Santa Croce
Consacrata al culto cattolico, fa parte della parrocchia di San Bartolomeo, arcidiocesi di Sassari. 

Unica tra due chiese storicamente documentante all'interno del centro abitato, è stata ampliata allo scorcio dell'800 ingrandendo un primitivo impianto di stile tardo-gotico catalano. 

Attualmente non è aperta la cripta sottostante e vi sono stati seri danneggiamenti nei restauri (perdita della balaustra, del pulpito ligneo, degli altari laterali e della cantoria lignea). 

Ospita diversi simulacri appartenenti alla chiesa parrocchiale (degna di nota è la settecentesca Madonna della Concezione e la pregevole Addolorata di bottega leccese. 

Appartengono all'oratorio, invece, il crocefisso dell'altare maggiore (primo '900 in sostituzione di un precedente del 1667 disperso) e un pregiato simulacro settecentesco raffigurante Sant'Isidoro agricola. 

Vi officia dalla metà del XVI secolo l'omonima arciconfraternita, composta da un ramo maschile e uno femminile, guidati entrambi da un priore, particolarmente attiva nei suggestivi riti della settimana santa ma un tempo anche come partecipante ai cortei funebri e a diverse processioni annuali come le rogazioni (nell'oratorio si celebrava infatti in modo particolarmente solenne l'Ascensione di Gesù).

La Chiesa di Sant’ Antonio di Briave

Chiesa di Sant'Antonio di Briave
Chiesa di Sant'Antonio di Briave
Consacrata al culto cattolico, fa parte della parrocchia di San Bartolomeo, arcidiocesi di Sassari. 

Sino al XVII secolo era conosciuta come "Sant'Antonio de su crastu ruttu"

Ubicata nella suggestiva località omonima non lontano dalla fertile valle di Briai e dalla necropoli prenuragica di Mesu 'e Montes, la chiesa apparteneva al villaggio medievale di Briave, spopolatosi durante il XIV secolo. 

Conserva al proprio interno un'acquasantiera di rozza fattura seicentesca, mentre il semplice altare risale alla fine del XIX secolo. La chiesa era luogo di sepoltura dei proprietari e lavoratori dei vicini mulini.

Ad unica aula, è stata edificata con blocchi di calcare tagliati a spigolo vivo, che realizzano dei filari unitari, in parte risarciti in seguito a un restauro. 

La facciata, monocuspidata, è rinserrata fra larghe paraste d’angolo, con specchio ribassato e archeggia tura orizzontale sovrastata da paramento liscio disposto su piani obliqui in funzione della copertura a capriata. 

In asse con il portale architravato, sotto gli archetti, è presente una luce cruciforme. Le fiancate e il retro spetto dell’abside conservano gli archetti, monolitici, con ghiera semicircolare, che si impostano su peducci sgusciati o, meno frequentemente, a sezione di modanatura. 

Nella fiancata sud est si apre una porta architravata con arco di scarico a sesto rialzato nella cui lunetta è un concio nel quale erano alloggiati due bacini ceramici. 

L’impianto è stato attribuito (CORONEO 1993) a maestranze di educazione toscana attive nel Giudicato di Torres nella seconda metà del XII secolo.

mercoledì 27 aprile 2016

La Chiesa Parrocchiale di San Bartolomeo

Parrocchiale di San Bartolomeo (XVI sec.)
Parrocchiale di San Bartolomeo (XVI sec.)
Scenario indiscusso dei festeggiamenti del Santo patrono è l’intero paese, che viene attraversato dal corteo professionale. 

I momenti più solenni legati alla festività, si svolgono tuttavia nella chiesa parrocchiale omonima, che sorge all’ingresso del paese, in prossimità della sede del Comune.

La chiesa è un edificio di ampie proporzioni, che si sviluppa in un’ aula unica e che è rinforzato all’esterno da robusti contrafforti entro i quali trovano spazio le cappelle laterali, secondo una tipologia piuttosto diffusa nelle architetture religiose del Sassarese.

La parrocchiale fu inserita negli anni 1553-1555 dall’Arcivescovo turritano Salvatore Alepus nell’itinerario pastorale della diocesi di Torres. 

Da questa visita apprendiamo che, oltre l’altare maggiore, la chiesa disponeva di sei cappelle laterali, dedicate a S. Maria della Rosa, a S. Lucia, S. Antonio, a S. Giuliano, a S. Giovanni Evangelista, al Crocifisso.

La navata è percorsa, all’imposta della botte, da un cornicione aggettante liscio; l’arco d’immissione, nelle cappelle laterali, è a tutto sesto, in corrispondenza del quale si trovano degli oculi che attraversano i  lati lunghi dell’edificio.

All’interno dell’edificio, in asse con l’ingresso principale, si trova un ballatoio, elemento caratterizzante le architetture gesuitiche che, in qualche modo, insieme ad altri elementi stilistici, lo collocherebbero cronologicamente nella prima metà del XVI secolo.

Nella seconda cappella a sinistra e nella prima a destra si segnala la presenza di due grandi dipinti del XVIII secolo che rappresentano rispettivamente il martirio di S. Gavino, Proto e Gianuario, attribuito dal manoscritto prima citato al pittore Girolamo Roffino, e le anime purganti, di cui è sconosciuto l’autore.

Due secoli dopo la sua costruzione, alcuni altari furono rinnovati e l’edificio continuò a subire, a partire dal 1700 e nei secoli successivi, rinnovamenti anche strutturali con la navata allungata di due cappelle, la ricostruzione dell’abside, il campanile abbattuto e ricostruito sul lato opposto.

Il prospetto principale è dominato dal portale centinato a timpano spezzato su lesene scanalate. 

E’ segnato da un cornicione aggettante ed aperto da un finestrone rettangolare, decorato con un motivo elicoidale; la sommità della facciata presenta due pinnacoli di coronamento.

La Chiesa Campestre della Madonna di Sylvara

La Chiesa Campestre della Madonna di Sylvara
La Chiesa Campestre della Madonna di Sylvara
Ad unica navata con copertura a botte, edificata con blocchi di calcare.

La facciata, monocuspidata, ha portale architravato sormontato da un arco a tutto sesto; larghe paraste ne rinserrano per circa 2/3 la fronte con unico specchio, leggermente incassato, che si conclude con spioventi, al vertice del quale era alloggiato un bacino ceramico. 

Vi si innalza un campanile a vela, ad unico fornice, del quale rimangono i piedritti e, nella parte destra, la cornice e il peduccio. 

All’esterno i muri perimetrali erano coronati da una teoria di archetti pensili: oggi solo uno è situato nell’angolo nord occidentale. Il retro spetto dell’abside è parzialmente interrato: si conservano gli archetti del coronamento.

L’aula appare austera, una cornice segna l’imposta della volta: del tipo a ovolo con listello e tondino, in qualche caso doppia, appare un’aggiunta successiva. 

Al presbiterio si accede mediante tre gradini inquadrati dai pilastri; al centro dell’abside si apre una monofora, un’altra è ricavata nel lato nord dell’aula mentre, simmetrico, a sud, nel corso di un recente restauro è stato individuato un ingresso laterale ed è stato messo in luce anche il basamento di un successivo altare (DERUDAS 2006). Si ascrive alla seconda metà del XII secolo.

Il Museo Etnografico del Palazzo Baronale

Interno del Museo Etnografico
Interno del Museo Etnografico
Il Palazzo Baronale ospita il Museo Etnografico Comunale.

Il percorso espositivo si snoda su tre piani dove sono ricostruiti i diversi ambienti rurali del secolo scorso e dove sono esposti, seguendo il senso logico, i diversi strumenti e attrezzi che sono serviti ai nostri nonni per svolgere il faticoso lavoro dei campi o delle botteghe artigianali, e alle nostre nonne, con eguale fatica, per i lavori domestici, la panificazione, la produzione del formaggio, la tessitura, la numerosa famiglia da mandare avanti.



Si possono così vedere al piano terra, nel corridoio che conduce al cortile, l’esposizione di alcuni attrezzi che servivano per lavorare la terra, zappe, aratri, i finimenti degli animali da tiro e da soma. 

Nell’unica stanza al pianterreno il percorso prosegue con l’esposizione degli oggetti utilizzati per la lavorazione dei prodotti della campagna, di antichi pesi e misure, di attrezzi per la produzione di formaggio, vino e olio

Al piano superiore, in quattro distinti locali, sono stati ricostruiti, con mobili e oggetti d’epoca, la cucina e la camera da letto, ossia le stanze che costituivano gli unici locali dell’abitazione contadina, una stanza di disimpegno (s’apposentu) dove le massaie cucivano, ricamavano e ricevevano gli ospiti. In un quarto locale si passano in rassegna tutti gli attrezzi utilizzati dal falegname, il fabbro e il calzolaio che risultano essere i mestieri più attestati ad Ossi.

Tre mestieri che insieme a quelli del contadino, del pastore, del mugnaio, del muratore, del cestaio, rappresentavano una complessa attività lavorativa che rendeva quasi del tutto autonoma la vita del paese. 

Il secondo piano ospita infine la sezione archeologica.

Il Palazzo Baronale

(Palazzo Baronale - XVII sec.)
(Palazzo Baronale - XVII sec.)
La storia del Palazzo Baronale si intreccia con quella della Baronia di Ossi

Costruito presumibilmente nella prima metà del 1600 è l’edificio antico di maggior pregio presente ad Ossi. 

Con molta probabilità proprietaria del palazzo fu originariamente la famiglia Guyò, titolare della Baronia di Ossi, quindi, dopo la morte senza eredi di Don Giovanni Guyò nel 1690, la famiglia Manca – Amat di Sassari. 

Del 1749 è lo stemma in pietra sovrastante l’ingresso principale così descritto araldicamente:

“D'argento al pero fruttato, nudrito sulla pianura erbosa e sostenuto da due leoni affrontati, il tutto al naturale”, il quale reca la scritta: “Esta obra hizo/el n.d. Miguel Piras A. 1749” che si riferisce alla famiglia nobiliare Piras di Ossi, che nell’elenco nobiliare sardo del 1902 risultava divisa in due rami: uno con dimore in Sassari e Florinas, l’altro in Bonnannaro e Padria. 

Piras Michele ebbe i titoli di Cavaliere (m), Nobile (mf), Don (mf) da Antonio Giuseppe con Concessione del 31 agosto 1748 di Carlo Emanuele III Re di Sardegna.



Dalla famiglia Piras, verso la fine dell’800, il Palazzo Baronale passò alla Parrocchia di Ossi, quindi dalla fine degli anni ’60 cadde in uno stato di grave abbandono che lo rese inagibile. 

Scongiurato il rischio di una sua demolizione vennero rifatte le coperture dal Genio Civile cui seguirono i primi interventi di restauro.

Il 18 dicembre del 1993 con decreto del Ministro dei Beni Culturali esso fu dichiarato, ai sensi delle legge 1 giugno 1939 n°1089, “di particolare interesse storico-artistico”. Nel 1997 è stato acquistato dal Comune di Ossi che ne ha completato il restauro trasferendovi la sede del Consiglio Comunale come scelta simbolica di insediare le istituzioni democratiche in un luogo che fu sede dell’arbitrio e della “tirannia” del potere feudale. 

Il 16 aprile del 2007 il Consiglio Comunale ha istituito il Museo Etnografico Comunale una scelta che giunge a coronamento di un lungo percorso di restituzione al popolo della sua sovranità e nell’intento di custodire la cultura, le tradizioni e la civiltà contadina prima che andassero definitivamente disperse.

Il Costume Tradizionale di Ossi

COSTUME MASCHILE


Attualmente, nel nostro paese, il costume maschile è identificato con quello dei "massajos", cioè del ceto più comune, e differisce da quello del passato solo per l'utilizzo del panno nero in sostituzione dell'orbace (per alcuni elementi); infatti, sino ai primi di questo secolo, era così composto:

il copricapo (BERRITTA) a forma di sacco lungo circa 40 o 60 cm, nero, prima di orbace poi di panno, ad Ossi veniva ripiegata diversamente rispetto ad altri paesi.

La camicia (BENTONE) è confezionata in cotone, (oppure in lino), ampia con increspature nel collo, nelle maniche e nei polsi, ed è pieghettata sul petto, si indossa sotto il giubbetto, lasciando scoperta la parte delle maniche e quella del petto.

Il giubbetto (COSSO) è attualmente confezionato in panno, (un tempo in orbace), di colore nero per i "Massajos", mentre i ricchi proprietari si potevano permettere stoffe più preziose, sia di fattura che di colore. Esso è a doppio petto e senza maniche, con una doppia fila di bottoni di stoffa (in tutto 42), che potevano essere ricchi di filigrana d'argento.

Il gonnellino (RAGAS) di orbace nero (ora in panno) pieghettato in vira e corto, ora dispone di una sottile striscia, sempre d'orbace (LATRANGA); la sua funzione è quella di unire la parte anteriore a quella posteriore, con il compito di tenerle aderenti al corpo e sostenere i calzoni.

I calzoni (CARTZONES) si indossano sotto le "RAGAS", sono in lino o in cotone, molto ampi e le estremità si infilano dentro le uose (GOSAS O GHETTASA) di orbace nero che coprono i piedi e le gambe sino al ginocchio, dove sono bloccate con legacci neri.

Le calzature erano di fattura artigianale e avevano la parte anteriore coperta dalle uose.
Altri elementi del costume maschile tutt'ora esistenti sono la cintura in pelle (SA ENTRERA) alta almeno 5 cm, semplice o lavorata, una giacca corta (CAPOTTINU) di orbace nero con risvolti in velluto, usato quotidianamente o nelle feste dotato di cappuccio (CUGUDDU).

COSTUME FEMMINILE


Per quanto riguarda il vestiario femminile, Ossi è in grado di presentare tre varietà di abbigliamento che, pur nelle diverse funzioni, rispecchiano la componente base che è la seguente:
copricapo, camicia, busto, giubbetto, gonna e grembiule.

Il copricapo può essere semplice o composito, si parte con il fazzoletto ripiegato sulle guance (MANCALORU A CORROS) di uso domestico giornaliero, di tela semplice; con il lutto si tingeva di nero e veniva ricoperto da un fazzoletto rettangolare nero che ricadeva sulla schiena (PUNTIGLIU), come versione festiva si usava il sottostante bianco, o di colore chiaro, e il rettangolare nero ricamato a motivi floreali (MANCALORU ISPALTU)

Più recentemente, le spose benestanti usavano sostituire il fazzoletto rettangolare nero con uno delle medesime dimensioni, di tulle e seta bianca intagliati (MANCALORU FESTONADU) appuntato al fazzoletto bianco sottostante.

La camicia (CAMIJA) era di lino, ora è di cotone bianco; presenta un'ampia scollatura, lavorata finemente ad ago, è molto larga, soprattutto le maniche che, nelle increspature ai polsi e sulle spalle, vengono impreziositi con dei rilievi sempre a punto d'ago; il petto è realizzato da sottilissime pieghe che, nei modelli giornalieri, sono sostituiti da pizzi. 

Sopra la camicia viene indossato l'imbusto (S'IMBUSTU) che serve per reggere il seno; la sua caratteristica è di essere composto da due parti unite nella schiena da nastri fissi, mentre sul davanti veniva chiuso con un lungo nastro intrecciato. 

La sua struttura è realizzata irrigidendo con palma nana l'interno dell'indumento che, poi, veniva rivestito a seconda delle occasioni per cui serviva, se giornaliero con broccato, per festa o matrimonio con ricami in seta, per il lutto con velluto nero o altra stoffa scura e, per il mezzo lutto, sfondo scuro con ricami, colore che veniva utilizzato anche per i nastri.

Il giubbetto (CORITTU) è di dimensioni ridotte, lascia scoperto il petto e la schiena, in modo da far vedere il sottostante busto, le maniche sono strette ed hanno uno spacco che va dal gomito al polso che fa spuntare la camicia. Il tipo di tessuto è il terziopelo  di velluto operato nelle varie tonalità a campo nero per il costume dei "massajos" che lo abbinavano alla gonna in panno nero. 

Le maniche sono guarnite con diverse decorazioni, e chiuse con numerose asole su cui si infilavano bottoni in filigrana d'oro o d'argento in numero proporzionato alle possibilità economiche della proprietaria.

Identico nella forma ma confezionato con velluto di terziopelo liscio di color vinaccio, è il giubbetto che si abbinava alla lana rossa, e che completava con il fazzoletto e il grembiule bianco di tulle e seta intagliata, il cosiddetto, attualmente, "costume rosso da sposa", che è quello più costoso ed era prerogativa dei ricchi possidenti.

La gonna (PUNNEDDA) è lunga sino alle caviglie ed è ampia con fitta pieghettatura; per l'abbigliamento festivo è in panno (anticamente in orbace), e, per la varietà attuale da vedova, si usa il tibet nero.

Il ceto medio usava adornare la gonna di panno nero con una balza di tessuti più o meno preziosi, (seta, velluto, broccato, ecc.), dello stesso tipo del grembiule (PANNEDDU) ed ovviamente arricchita, a seconda delle disponibilità, di pizzi, guarnizioni, nastri, pieghette ecc...

La gonna in panno rosso ha una balza alta 30 cm circa, che è una sequenza continua di ricamo a motivi floreali su seta bianca, con tonalità che richiamano i ricami del busto.

La parte anteriore della gonna (CAMEDDU) viene ricoperta dal grembiule, che in questo caso è realizzato come su MANCALORU FESTONADU, cioè di tulle e seta bianca intagliata. 

Completando questa descrizione del vestiario tradizionale femminile, rimane da illustrare il "costume da vedova", che è composto da elementi particolari come "SU PANNEDDU E COBUDDU" , una sorta di cappa in tela nera che copre la schiena sino alla vita, dove si increspa per questo particolare che, visto dalla parte posteriore, ci ricorda la valva di una conchiglia.

GIOIELLI


Un discorso a parte merita la descrizione dei gioielli che si usano nell'abbigliamento, sia maschile che femminile: sono quelli tipici del Logudoro, cioè, lavorazione a filigrana per bottoni d'oro e d'argento, con forma di melograno e dimensioni adeguate alle possibilità economiche. 

Ad Ossi, le donne usavano anche una catena d'oro lunga "SA CADENA A EMME" , ed una più corta a globi alternati di oro e corallo "SA CADENA E CORALLO", e vari tipi di fermagli realizzati a lamina che si appuntavano sulla camicia per adornarla; un altro elemento che si metteva sul collo è "SU MEDAGLIONE" , anch'esso d'oro lavorato in filigrana.

Enogastronomia

Joghittas frittasa (Lumaconi Fritti)
Joghittas frittasa (Lumaconi Fritti)
Oltre alle inconfutabili bellezze paesaggistiche e archeologiche e alla consistente produzione di vino, olio e orticoli, Ossi è anche un paese ricco di un'antica arte culinaria che affonda le radici nel vivere quotidiano e nell'adattamento a ciò che il territorio offre.

Sempre vivi sono gli echi dei mulini che macinavano incessantemente il grano per ottenere quel prezioso alimento: la farina, indispensabile nella dieta alimentare contadina per produrre il gustoso e fragrante pane, dalle infinite forme e profumi inconfondibili, e gli attesissimi dolci delle feste.

Tutt'intorno al paese ancora oggi, i tintinnii delle greggi che pascolano allo stato brado e da cui si ricava dell'ottimo latte, sono materia prima di gustose, tenere ricotte e saporitissimi pecorini che allietano ogni tavola.

Eccezionale è poi la panna, ottenuta dalla scrematura del latte appena munto, da cui si ottiene, con l'aggiunta di semola di grano duro, il piatto caratteristico della zona, "sa mazza frissa".

Ossi è anche rinomato per la consistente produzione di lumache, allevate prevalentemente in ambito familiare. I piatti proposti dai ristoratori del paese seguono scrupolosamente antiche ricette tradizionali dai nomi suggestivi; "Joghittas frittasa" (le rigatelle fritte) o "Su coccoi cun bagna" (lumaconi al sugo).

Sempre nell'ambito della ristorazione vengono proposti molti altri piatti tipici del paese come la "cordula" (interiora di agnello o pecora), fatta arrosto o con piselli; il "ghisadu" al sugo di pomodoro (con carne di cinghiale o porcettone); e la favata con i piedini di maiale e finocchietti selvatici, per elencare quelli più tipici.

L'allevamento ha fatto si che dalle ottime e pregiate carni si potessero proporre altre pietanze rinomate e particolarmente gustose, come gli ottimi arrosti d'agnello o di maialetto, preferibilmente fatti allo spiedo, o le bistecche d'asino e di cavallo.



Il vino
Il territorio di Ossi, data la particolare conformazione del suolo e le caratteristiche del clima, permette la coltivazione di numerosi vitigni, prevalentemente a bacca rossa, come il Cagnulari, il Canonau e il Bovale, anche se è ugualmente diffuso il Vermentino, da cui si ricava un bianco particolarmente fresco e aromatico.

La presenza di numerosi e appassionati coltivatori dà luogo ad una produzione di buona qualità, destinata prevalentemente al consumo locale e regionale, anche se non si esclude il mercato nazionale, dove risulta particolarmente apprezzata.

L'olio d'oliva
Colore dorato con riflessi verdognoli, profumo intenso, gusto fruttato, leggermente piccante... Sono queste le caratteristiche dell'olio prodotto nelle campagne del territorio di Ossi, particolarmente vocato alla coltivazione dell'olivo.

Una continua attenzione alla qualità da parte dei diversi produttori dà luogo alla produzione di ottimi oli extravergini, in cui, accanto al mantenimento delle metodologie tradizionali, si afferma la ricerca di nuove tecnologie in grado di razionalizzare e migliorare la fase produttiva.

Formaggi, carni e insaccati
Un paesaggio unico, ricco di pascoli profumati d'erba e di fiori.
L'intenso allevamento ovino, praticato da secoli e ancora oggi mantenuto al pascolo naturale, si traduce nella produzione lattiero-casearia, tipica della tradizione di Ossi.

Di grande pregio è il pecorino, fresco o stagionato, prodotto esclusivamente con latte di pecora intero, e coagulato con l'aggiunta di caglio di agnello.

Gustoso e saporito, sotto i tre mesi di stagionatura si presta ad essere arrostito e, a maturazione avvenuta, pur rimanendo un prodotto da tavola, si adatta bene come condimento di paste asciutte e minestre.

Dai pecorini freschissimi si ricavano inoltre gli ingredienti per molti dolci tradizionali, quali le "pardulas", le "casadinas" e le "sebadas", mentre la profumata e saporitissima ricotta costituisce il ripieno dei ravioli, uno dei piatti più gustosi della tradizione isolana.

Ad Ossi, l'abbondanza di pascoli offre un ambiente particolarmente adatto all'allevamento degli ovini e dei suini, da cui si ricavano diversi prodotti, come carni di primissima qualità e insaccati destinati anche al mercato regionale.

Tra gli insaccati, la tradizionale salsiccia, sia fresca che stagionata, costituisce un prodotto di grande pregio. La sua lavorazione segue fedelmente la ricetta tradizionale: le carni vengono tagliate a pezzetti e fatte macerare, con l'aggiunta di spezie selvatiche, in un apposito recipiente per diversi giorni e quindi insaccate.

Le salsicce così ottenute, dalla caratteristica forma a ferro di cavallo, vengono poi lasciate asciugare e, a seconda della richiesta, affumicate ed essiccate.

Archeologia Ossi

Necropoli di S’Adde e S’Asile
Necropoli di S’Adde e S’Asile
La necropoli di S’Adde e S’Asile , che si estende lungo le dolci pendici meridionali del Monte Corona ‘e Teula, area in parte boschiva utilizzata come pascolo, restituisce undici ipogei fra i quali si annovera la domus de janas (Tomba Maggiore) con il maggior numero di ambienti rinvenuta a oggi in Sardegna che consta di ben 21 ambienti, 18 protomi taurine e altri motivi decorativi.

A Noeddale è ubicata la ben nota Tomba di ella Casa che riproduce perfettamente le abitazioni di epoca prenuragica: il tetto e le travi di sostegno sono un’imitazione scolpita degli spioventi di canne delle capanne abitative.

Nella località Littos Longos, alla periferia del paese, si può visitare l’omonimo e splendido ipogeo preceduto da un lungo dromos; degni di nota sono anche altri ipogei fra i quali Su Littu, sito nell’omonima località; Su Muntiju ‘e sa Femina, forse per via di una rappresentazione femminile raffigurata nell’ingresso; Su Campu Mannu, di Paesana, di Nannareddu e di Su Monte Mamas.

Una campagna di scavo pluridecennale, benché non continuativa, interessa il complesso nuragico di Sa Mandra ‘e Sa Giua il quale ha restituito elementi costruttivi e reperti di eccezionale valore scientifico.

“Casa del Pane”
"La Casa del Pane”


Il villaggio è formato da diverse capanne ben costruite, dotate di vasche, canali di scolo e forni; menzione particolare merita la cosiddetta “Casa del Pane”, riprodotta anche nel gonfalone comunale.

Numerosi altri siti nuragici sono dislocati lungo il territorio circostante; Pettu ‘e Murtas, Sa Chintosera, Pascialzos, Pira Ula, Pianu Marras, Sisini, Corte ‘e Lottene, Formigiosu, Pala Montedda, Tres Nuraghes, e Su Littu.

Le Origini di Ossi

Stemma dei Malaspina
Stemma dei Malaspina
L’attuale villaggio è d’origine medioevale, apparteneva al Giudicato di Torres ed era incluso nella Curatoria di Coros, possesso dei Malaspina a partire dalla fine del sec. XII.

Quando i Malaspina aderirono all’insurrezione scatenata dai Doria, Ossi subì gravi danni ma continuò a rimanere in loro possesso fino al 1353 quando insieme alla Curatoria di Coros passò al Re Pietro il Cerimonioso.

Quindi la “villa” di Ossi fu inglobata nel Regno di Arborea in seguito alla guerra tra Aragona ed Arborea e rimase occupata dalle truppe giudicali fino al 1409.

Nel 1420 quando ebbe fine il Regno Arborense il villaggio passò al Regno di Sardegna e l’anno seguente fu incluso nella Contea d’Oliva, feudo di Bernardo Centelles.

Nel 1438 quando i Centelles vendettero ad Angelo Cano la Baronia di Osilo vi inclusero anche Ossi.

Il villaggio rimase in possesso dei Cano fino al 1469. Da questa data passò in linea femminile ai Cedrelles e poi al Casato dei Fabra.

Le due famiglie si disputarono il possesso di Ossi in una lite che durò fino al 1512 quando si chiuse definitivamente a favore dei Cedrelles; tuttavia, l’eccessivo costo della lite spinse la famiglia a vendere nel 1545 il villaggio di Ossi a Bernardo Viramunt che però morì poco dopo.

Nel 1550 Ossi fu acquistato dai Guyò che ne mantennero il possesso fino all’estinzione della famiglia avvenuta nel 1732. A questo punto Ossi fu ereditato dagli Amat la cui discendenza si estinse nel 1752 e da qui passò ai Manca di Mores.

Nel 1796, in epoca Sabauda, il villaggio prese parte ai moti antifeudali parteggiando per G.M.Angioj; fu per questo sottomesso, mano armata, dalle truppe regie. Ai Manca di Mores il villaggio rimase sino al riscatto del feudo che avvenne nel 1839.

Già nel 1821 Ossi fu incluso nella provincia di Sassari e quando nel 1848 le province furono abolite entrò a far parte dell’omonima divisione amministrativa fino al 1859 quando fu ripristinata la provincia.

Lo Stemma


Gonfalone Ossi
Gonfalone del Comune di Ossi
Stemma: scudo sannitico, campo semplice di porpora caricato da "monumento architettonico" d'oro. 

Gonfalone: drappo di colore azzurro con arma, corona di Comune d'Argento e murato di nero, elemento decorativo sinistra dell'arma da fronda di quercia di verde con ghiande d'oro, a destra fronda di alloro dei verde scuro con drupe d'oro fra loro decussati sotto la punta dello scudo e annodati da nastro tricolore. 

Parti metalliche, cordoni: d'argento

Il Comune di Ossi

Panorama di Ossi
Panorama di Ossi

a cura dei volontari del servizio civile di Ossi


Ossi è situato a 332 metri sul livello del mare, Sollevata dalla Nurra e dal tavolato Sassarese, con altopiani di rocce calcaree che fanno da cornice a splendide vallate attraversate da piccoli torrenti nei mesi invernali.

I confini del territorio di Ossi, con i paesi limitrofi, sono spesso tracciati da formazioni naturali: il Rio Mascari a Nord e alcune alte montagne, estese da nord-ovest a oriente, lo dividono dai paesi di Muros e Florinas; il Riu Mannu dal paese di Ittiri e strette gole e depressioni Carsiche dai paesi di Tissi e Usini.

I terreni a base d’argilla e calcare, con formazioni arenacee di varia struttura e marne giallastre, sono ricchi di numerose sorgenti, dalla cui umidità ne trae beneficio soprattutto il clima con miti temperature estive.

Queste caratteristiche hanno reso possibile l’adattamento dei terreni alle varie culture arboree tra cui l’ulivo e la vite.

L’ulivo spesso lo troviamo impiantato su lunghi pendii a terrazza, arginati da caratteristici muraglioni di sostegno in pietra, mentre la vite si adatta meglio ai terreni collinari e sabbiosi.

Alberi da frutto invece trovano l’habitat ideale lungo le vallate protette dai venti, nei dintorni del centro abitato, così come le coltivazioni di cereali e soprattutto di orticoli, tra cui predomina il carciofo spinoso sardo.

Il paesaggio restante, ricoperto di macchia mediterranea, viene utilizzata prevalentemente dagli allevatori per il pascolo degli ovini allo stato brado.

Nel Medioevo appartenente alla curatoria di Coros, era costituita da un nucleo di case intorno alla chiesa romanica poi sostituita dall'attuale parrocchiale.


Nel 1960 Ossi venne concessa a Giovanni Guiò per poi passare, nel XVIII secolo, alla famiglia Manca, sotto i quali venne unito alla contea di S. Giorgio, comprendente anche Tissi, Usini ed Uri. 

Numerose leggende ne raccontano le origini.

Fra queste, una racconta che San Bartolomeo apparve in sogno ad un fondatore del paese per esortarlo a scavare in un punto preciso del terreno; l'uomo, eseguito l'ordine, trovò "su siddanu", un ricchissimo tesoro che comportò, come segno di riconoscenza, la realizzazione di una statua dedicata al santo.

La statua arrivò da Turris su un carro trainato da buoi che, giunti nel paese, si fermarono e si inginocchiarono nel punto in cui venne costruita la chiesa di San Bartolomeo.

Ossi offre l’attrattiva di scenari naturalistici incantevoli.

La bellezza rigogliosa della campagna circostante, alimentata dal Riu Badde, Riu Pizzinnu e irrorata da fresche sorgenti, ospita vestigia archeologiche a poca distanza dal paese.

Nella campagna di Ossi, oltre alle necropoli dall’epoca prenuragica a quella romana, meritano una visita le chiese di Santa Maria di Silvano e Sant’Antonio, del XII secolo, costruite in cantoni di pietra calcarea e con aula unica.

All’interno dell’abitato, invece, si trovano le chiese di S. Bartolomeo, di Santa Croce, e di Santa Vittoria.


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Stemma della famiglia Malaspina
Stemma della famiglia Malaspina




















Non solo Storia


Da visitare

giovedì 21 aprile 2016

La Pro loco di Arzana

a cura dei volontari del servizio civile di Arzana


ARZANA E IL GENNARGENTU


Il territorio comunale di Arzana, uno dei più vasti dei paesi dell'Ogliastra, si estende per circa 16.250 ettari. 
L'estensione maggiore è quella attorno al centro abitato, situato a mezza costa del Monte Idòlo, fino a raggiungere il confine con Desulo ed Aritzo a nord ovest, con Villagrande a nord, ad est con Elini e Tortolì, a sud est con Ilbono, a sud con Lanusei e Gairo, e a sud ovest con Seulo e Seui. 
Altri possedimenti sono costituiti dai terreni adibiti quasi interamente a pascoli ubicati nella zona di Quirra, al confine con Villaputzu.
Il paese è sorto e si sviluppa attorno alla fonte detta Suya che si trova, attualmente, nella piazza principale del centro abitato, piazza Roma, sita accanto alla chiesa di San Giovanni Battista, patrono del paese.

Per quanto il territorio di Arzana sia molto vasto e vario, il settore certamente più interessante è quello montano compreso tra le sponde del lago Alto Flumendosa e Punta La Marmora

Qui, infatti, si possono trovare quelle realta' floristiche e faunistiche del tutto originali se non esclusive. 

Il periodo che offre maggiori opportunità è senza dubbio la primavera.

Camminando tra la macchia, sui costoni coperti da erica e ginestre dove svettano tassi secolari e contorti ginepri, potrà capitarci di vedere femmine di muflone guidare i piccoli al pascolo.

La buona presenza di rapaci ci permetterà di seguire il lento volteggiare di una poiana o la veloce picchiata del falco pellegrino.

Addentrandosi nella fitta lecceta, dove è possibile scorgere le fioriture di digitali e ciclamini, i più fortunati riusciranno a cogliere l'astore nelle sue acrobazie, mentre insidia la preda nell'intrico dei rami.

Rettili, anfibi e una moltitudine di insetti, completano la varietà di esseri che ci accompagneranno nella nostra escursione...


Scopri con noi il nostro territorio!



Da non perdere

  • Punta La Marmora
  • Sa idda è Ruinas


Un Anno di  Eventi

  • Festeggiamenti Madonna d'Ogliastra
  • Le Erbe Medicinali del Gennargentu
  • Festeggiamenti San Vincenzo Ferreri
  • Il Porcino d'Oro
  • "A Cent'Annus e Prusu" - Festa degli anziani